Fabrizio Cervellieri: creatività in cucina tra innovazione e sostenibilità
Innovare, sperimentare, evolvere, portare l’ingegno italiano in ogni aspetto della vita, questi sono i capisaldi in cui crede la Fondazione Creativi Italiani per far “vivere” il nostro Paese. Lo Chef Fabrizio Cervellieri incarna a pieno questo pensiero: determinazione abruzzese, disciplina friulana e una personalità eclettica. Porta la sua visione creativa in cucina forte delle esperienze internazionali tra Londra, Berlino, e Copenaghen.
di Vittorio Zenardi
Innovare, sperimentare, evolvere, portare l’ingegno italiano in ogni aspetto della vita, questi sono i capisaldi in cui crede la Fondazione Creativi Italiani Italiani per far “vivere” il nostro Paese.
Lo Chef Fabrizio Cervellieri incarna a pieno questo pensiero: determinazione abruzzese, disciplina friulana e una personalità eclettica. Porta la sua visione creativa in cucina forte delle esperienze internazionali tra Londra, Berlino, e Copenaghen. Siamo andati a trovarlo nel suo “æde dining & wines” di Roma, dove ci accoglie con un bicchiere di vino in mano, in quello che è il suo habitat naturale, raffinato e minimale, cucina a vista, scaffali in legno con vasi di fermentazione e opere d’arte. Una cucina di ispirazione nord europea ma che si basa sull’uso di prodotti del nostro territorio, estrapolati dal contesto tradizionale e dal loro uso canonico, senza mai dimenticare le radici italiane.
Anche quando è al nostro tavolo per questa intervista, tiene tutto sotto controllo, impartisce ordini ai suoi ragazzi, controlla i piatti, osserva i clienti in sala. La professionalità per lo Chef Cervellieri è un modo di essere, l’eccellenza a tavola nasce anche da una impostazione che lui definisce “matematica”.
“æde dining & wines” – Roma
Salve Fabrizio, le tue esperienze all’estero, penso a quella con lo Chef Christian Puglisi del Relae, ti hanno avvicinato alla cucina nordica che però mi dicevi è più una filosofia, un manifesto d’intenti. Ce ne parli?
Sì, bisogna capire bene di che si parla, nel senso che la cucina nordica ha uno spettro molto ampio. Parte da qualsiasi paese freddo che possa essere italiano, arrivando fino al Nord più nord che conosciamo. Si tratta di una cucina che si rifà ad un metodo ancestrale di cucinare, puntando tantissimo sulla stagionalità, quella vera. In un paese come il Friuli, dal quale vengo, la Val d’Aosta o la Danimarca, dove d’inverno non cresce niente, l’unico modo che hai per avere una dieta bilanciata è quella di conservare, fermentare in modo naturale tutto quello che nasce. I fautori della cucina nordica sono Redzepi, montenegrino, cresciuto in Danimarca, e Christian Puglisi siciliano, trasferitosi anche lui in Danimarca ad otto anni e mio ex chef. È un manifesto di cucina che si rifà semplicemente all’uso quasi maniacale del prodotto stagionale e di materie prime non stagionali da poter usare per tutto l’anno, anche grazie alla fermentazione. Utlizziamo eccellenze locali, ad esclusione di pochi prodotti che prendiamo da fuori per le loro caratteristiche particolari, come lo sgombro del nord che è molto più grande di uno sgombro nostrano o la capasanta danese, ma essenzialmente il prodotto è tutto italiano.
C’è un piatto in particolare che rappresenta la tua firma culinaria?
Non ne ho, perché cambio il menù ogni mese, l’unico piatto sempre presente è la lattuga macerata che ho creato tanti anni fa e sviluppato nell’arco di dieci anni. Amo gli ingredienti, ne abbiamo una quantità incredibile con cui poter giocare. Ogni mese ci inventiamo dieci piatti nuovi, partendo praticamente da zero, vedendo quello che c’è sul mercato, capendo quello che può essere funzionale e ci può piacere. Credo nel gusto, intuisco che un ingrediente insieme ad altri stia bene, poi trovo un equilibrio a livello non solo gustativo, ma anche di consistenze. Tendenzialmente è “buona la prima”, non restiamo molto sui piatti, considerando che cominciamo a lavorare il 27, 28 del mese il menù che esce il 5 del mese successivo. In tre o quattro giorni realizziamo l’intero menù. Questa rapidità ed elasticità sono il frutto di vent’anni di esperienza, quindici anni fuori dall’Italia e un palato particolarmente sviluppato.
Lattuga Macerata, polline ed erba cipollina
La sua è una proposta estremamente creativa, ha avuto subito un riscontro positivo con la clientela?
In realtà le cose sono andate bene fin dall’inizio. Cambiando menù ogni mese ci siamo garantiti una clientela abituale a cui piace sperimentare. Il nostro locale viene frequentato da grandissimi ristoratori e Chef, con nostro grande piacere. In tre anni abbiamo avuto numerosi riconoscimenti, la Guida Michelin, il Gambero Rosso, che ci ha inseriti fra i 30 ristoranti più visionari d’Italia, e la guida mondiale “360°” sulla sostenibilità, loro sono venuti dalla Svezia per mangiare da me.
Quale è il suo concetto di sostenibilità in cucina?
Parte da dentro, nasce da come stanno loro (indica i ragazzi in cucina), dal cuore dell’azienda e arriva al processo creativo, di spesa, di gestione rifiuti e tutto quello che c’è intorno.
Seppia, cetrioli, ‘nduja
Deriva anche dagli insegnamenti di tua nonna Evelina che era friuliana e nella sua vita si era trovata ad affrontare calamità naturali come il terremoto del ’76?
Sì, nonna era una dona del 1922 che ha vissuto la seconda guerra mondiale ed il terremoto del ’76 in Friuli. Diciamo che lo spreco non era nelle sue corde (ride…). Più che insegnarci le ricette, ci ha incoraggiato ad innamorarci di quello che facciamo.
Praticamente la sostenibilità fa parte del suo DNA…
Esattamente. Andavamo a portare dal macellaio i resti del frigorifero, tra cui prosciutti, mortadelle, salami dai colori improbabili e facevamo fare il trito per le polpette. A casa non si buttava niente, nonna diceva che una volta cotto non c’erano problemi. Siamo cresciuti in un paese dove il terremoto ha raso al suolo tutto, in una casetta di quelle portate dai canadesi dopo il terremoto del 76, dove cucinavamo sulla stufa in ghisa. In Abruzzo dove sono nato, si cuoceva sul camino. Lavorando l’orto si aveva tanta verdura a disposizione. A Roma ovviamente è più complicato, ma avere appreso quella mentalità mi aiuta ad essere più sostenibile e a non comprare cose per poi buttarle o scartarle.
Quando sei a casa, cosa ti piace cucinare?
Non cucino quasi mai, mangio tanto fuori, per me la cucina è un lavoro e come tutti i lavori deve finire quando arrivo a casa. Per una cena con amici mi posso dilettare, ma quando sei abituato a degli strumenti professionali, a casa non hai la possibilità di creare quello che crei al ristorante, e alla fine ti stressi più che al lavoro…
Un’ultima domanda, cosa consiglieresti ad un ragazzo che volesse fare il tuo percorso?
Il mondo è cambiato da quando ho iniziato io, allora anche se prendevi due lire imparavi tanto, vivere era più economico e riuscivi a gestirti meglio. Quello che dico ai giovani è di fare esperienze, sopratutto quelle che ti insegnano a capire quello che non vuoi essere, di formarsi un carattere, prendere le porte in faccia ma scegliere uno Chef onesto, capace e abile a trasmettere le conoscenze.
Fungo Cardoncello e kimchi di albicocche
Crediti fotografici: Giulia Brighi